«Mafia finta in tv e al cinema. Così si rischia di favorire i boss»
Perché il cinema e la televisione italiana raccontano solo certe storie di mafia e non altre? E ancora: siamo proprio sicuri che quei film e quelle fiction trasmettano allo spettatore un’immagine negativa della mafia o c’è il rischio che finiscano per esaltarne il fascino sinistro? Domande pesanti, che mettono in discussione anni di cinema e di televisione, soprattutto perché a farle non è un qualche cinefilo maniaco del dibattito, ma tre magistrati impegnati in prima persona nella lotta contro la malavita organizzata: Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia della procura di Palermo e Raffaele Marino di quella di Torre Annunziata. E le fanno dalle pagine del prossimo numero di duellanti , in edicola dal 2 settembre, che dedica uno speciale al rapporto tra film, fiction e mafia. Perché proprio adesso queste domande, si chiede nell’editoriale il direttore della rivista Gianni Canova? Perché «in un momento di sbandamento del nostro cinema, ma anche di ricerca e di riflessione» è particolarmente importante che «ci si metta insieme — almeno fra coloro che hanno ancora a cuore le sorti di un paese che si sta a poco a poco perdendo — per provare a immaginare di raccontare storie diverse». Diverse, per esempio, dalla rappresentazione della mafia come un gruppo di «brutti, sporchi e cattivi», che si esprime in un italiano approssimativo, figli del degrado economico e ambientale, contro cui lottano coraggiosamente un pugno di paladini-eroi pronti ad arrivare fino all’estremo sacrificio. È così la realtà? No, risponde Scarpinato, portando a testimonianza la sua esperienza sul campo e i tantissimi processi di cui è stato protagonista: quella della mafia è una storia fatta di delitti e stragi «decise in interni borghesi da persone come noi, che hanno fatto le nostre stesse scuole, frequentano i nostri stessi salotti, pregano il nostro stesso Dio (...), un terribile e irrisolto affare di famiglia, interno a una classe dirigente nazionale tra le più premoderne, violente e predatrici della storia occidentale». Di fronte a cui è difficile «spiegare il silenzio, la distrazione — che talora sembra sconfinare nell’omertà culturale — di tanti sceneggiatori e registi ».
Antonio Ingroia, che a fine giugno aveva organizzato a Palermo un incontro da cui ha preso le mosse lo speciale di duellanti , è ancora più diretto quando invita a non sottovalutare l’impatto che certe rappresentazioni distorte possono avere sul lavoro di chi combatte la mafia: «È accaduto, accade e accadrà che certe rappresentazioni finiscano per propagare, spesso al di là delle migliori intenzioni, il fascino sinistro dell’eroe del male» e fa l’esempio della fiction Il capo dei capi (su Riina), che veicola «una certa idea dell’immutabilità e dell’eternità della mafia stessa, difficile da vincere in una terra incline al fatalismo come la Sicilia». Mentre ricorda che altri film (a cominciare da Salvatore Giuliano di Rosi per continuare con quelli di Damiani e Petri) e altre fiction (come l’americana I Soprano ) sanno restituire la complessità e la ferocia dei comportamenti mafiosi senza cedere a indulgenze celebrative o facili ammiccamenti. Un compito così difficile? Sempre Ingroia scrive: «In anni più recenti abbiamo colto questo intento in titoli come Gomorra e Il divo. Basta volerlo, assumersi qualche rischio e qualche responsabilità».
Allo stesso modo Raffaele Marino si chiede perché il serial La nuova squadra , che nelle precedenti stagioni «era fortemente agganciata alla realtà di Napoli che non è mai stata tutta bianca, ma nemmeno tutta nera», adesso sia stato ridotto a «un campionario di luoghi comuni e incongruenza che difficilmente si poteva riuscire a concentrare in un’opera che, seppur di fantasia, ha (o per meglio dire aveva) la pretesa di ritrarre un ambiente e un territorio complesso come la Napoli odierna». E una realtà complessa e sfuggente come quella napoletana è raccontata facendo ricorso a «una sorta di duello all’O.K. Corral fra polizia e inverosimili boss, o addirittura a guerre intestine fra rappresentanti delle forze dell’ordine». Non sono rilievi da poco, perché chiamano in causa direttamente registi e sceneggiatori italiani e i troppi luoghi comuni delle loro storie: «È così impossibile raccontare la mafia come una narrazione della realtà che rovesci gli stereotipi», si chiede ancora Antonio Ingroia? Mettendo in scena «i retroscena del Potere mafioso invece della sua dimensione più colorita e folcloristica»? Si aspettano risposte...
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