sabato 20 giugno 2009
Perù: il gran giorno degli indigeni
Parlare di «giorno storico» è un po’ inflazionato. Ma questi sicuramente sono giorni storici per le etnie indigene del Perú che, pagando un altissimo prezzo di sangue, stanno festeggiando l’annullamento delle leggi che il presidente Alan García aveva voluto a ogni costo per «onorare» il Trattato di libero commercio (Tlc) firmato con gli Stati uniti (anche lui aveva definito «un giorno storico» quello del 14 dicembre 2007 in cui l’«amico» George W. Bush aveva firmato il Tlc).
Ieri Daysi Zapata, vice-presidente della confederazione indigena amazzonica che ha guidato la protesta, ha annunciato la fine dei blocchi dei fiumi e delle strade nei sei dipartimenti del nord che da aprile si erano dichiarati «en insurgencia». «Questo è un giorno storico per i popoli indigeni perché dimostra che le nostre richieste e battaglie erano giuste», ha detto.
La situazione era precipitata il 5 giugno quando il Congresso aveva rinviato il dibattito sulla revoca delle leggi contestate e García aveva ordinato a esercito e polizia la repressione. A Bagua, una cittadina mille km a nord della capitale, ci furono più di 50 morti, 30 indigeni e 22 poliziotti.
La decina di decreti erano stati imposti nel 2008 da García, un ex-socialdemocratico convertitosi al neo-liberismo puro e duro, in teoria per «mettere ordine» nella proprietà delle terre e nella concessione dei diritti di sfruttamento delle enormi risorse naturali - minerarie e agricole - dell’Amazzonia peruviana. In pratica quelle leggi dovevano spianare la strada alla vendita alle grandi compagnie transnazionale di 45 milioni di ettari appartenenti allo stato e alle comunità indie. Le organizzazioni indie, in cui era emersa la figura di Alberto Pizango, aveva cercato invano di farsi ascoltare ma García, un teorico dello «sviluppo» a ogni costo in un paese in cui più del 50% della popolazione è indigena e povera - e quindi dell’apertura totale delle porte alle compagnie straniere - non voleva sentire ragioni. Lui e il suo primo ministro, Yehuda Simon - un ex «socialista» - cercavano di far credere che a muovere gli indigeni fossero agenti stranieri (intanto avevano incriminato Pizango di ogni genere di reati) e che le leggi sarebbero passate. Invece no. Dopo proteste e incidenti cruenti anche nel centro di Lima, Simon ha annunciato le sue dimissioni, García (screditatissimo dopo tre anni di presidenza) è apparso in tv per fare una mezza autocritica e il Congresso, dopo un dibattito di 5 ore, ha annullato le due leggi più controverse con 82 voti contro 12.
Sono due visioni dello sviluppo antitetiche a scontrarsi. Quella dello sfruttamento senza freni delle risorse ambientali e quella delle popolazioni originarie impegnate a sostenere i diritti alla vita e all’acqua prima che al petrolio (e al rame, all’oro, all’etanolo...).
Le vicende peruviane hanno avuto anche riflessi internazionali. Il governo di Lima se l’è presa con il Nicaragua di Ortega, nella cui ambasciata Pizango si era rifugiato, per avergli concesso asilo politico. Poi con il Venezuela di Chávez e la Bolivia di Morales che avevano sostenuto le buone ragioni della rivolta indigena. García ha richiamato l’ambasciatore peruviano da La Paz dopo che Evo Morales aveva definito i massacri di Bagua come «un genocidio provocato dal libero commercio».
La guerra non finirà qui. García ci riproverà. Ma oggi per gli indigeni del Perú e non solo per loro, è un «giorno storico».
da Indymeda
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