Mauro Rostagno è stato ammazzato dalla mafia ventun anni fa. E' stato ammazzato per far tacere le sue trasmissioni con cui tutti i giorni denunciava amministrazioni locali e malavita organizzata. E' stato ammazzato alla vigilia di un potenziamento del segnale della sua stazione trasmittente che avrebbe esteso il suo ascolto dalla provincia di Trapani a tutta la Sicilia. E' stato ammazzato, verosmilmente, anche perché era sulle tracce di un gigantesco traffico di armi che coinvolgeva mafia e servizi segreti. Ma è stato ammazzato soprattutto all'indomani della sua pubblica e conclamata incriminazione comemandante, insieme ad altri ex dirigenti di Lotta Continua, dell'omicidio, avvenuto diciassette anni prima, del commissario Luigi Calabresi. Questo è stato sicuramente l'elemento scatenante che, delegittimandolo come ex-terrorista agli occhi dell'opinione pubblica, ha messo la mafia sull'avviso che il «momento giusto» per mettere a tacere Mauro era arrivato. Mauro è stato ammazzato dalla mafia e per qualsiasi persona onesta e di buon senso non c'era, fin da subito, alcuna possibilità di ipotizzare un movente del suo omicidio diverso dalla volontà di interrompere le sue denunce svolte con l'intelligenza, la creatività e il rigore che lo avevano sempre caratterizzato. Ma ci sono voluti ventun anni perché questa verità evidente venisse fatta propria dal documento giudiziario che da ieri prescrive la «custodia cautelare» per due mafiosi già in carcere. E' il risultato di una rigorosa inchiesta, ripresa dopo che la denuncia e le pressioni di migliaia di cittadini hanno invalidato le conclusioni della magistratura trapanese e di una folta schiera di giornalisti che perseguivano e pubblicizzavano piste differenti per evitare di riconoscere a Mauro Rostagno quello che, una volta morte, non è mai stato negato a tutte le altre vittime della mafia, con l'eccezione - anche qui per anni - di Peppino Impastato. Dopo aver tenuto in assoluto non cale la evidente coincidenza tra l'uccisione di Rostagno e la sua incriminazione per l'omicidioCalabresi, si era voluto dapprima sostenere che Mauro era stato ucciso dai suoi ex compagni di Lotta Continua per bloccarne la deposizione con cui avrebbe confermato l'impianto accusatorio che aveva portato all'incriminazione e all'arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l'omicidio Calabresi. Questa tesi era stata avanzata da un ufficiale dei carabinieri che ne aveva attribuito la paternità al giudice istruttore del procedimento per l'omicidio Calabresi (il quale ha negato quella paternità, senza però procedere, come era suo dovere, contro l'ufficiale che gliela aveva attribuita). In ogni caso quella tesi era stata «tirata fuori» e sbandierata per la prima volta - anzi urlata nel corso di un'intera seduta - dal legale di parte civile della famiglia Calabresi durante il processo di appello contro Sofri, Bompressi e Pietrostefani, come prova del carattere criminale degli imputati e dell'organizzazione Lotta Continua, di cui si è sostenuto a lungo che era un'organizzazione ancora attiva (a vent'anni dal suo scioglimento) e dedita ad attività terroristiche.
La famiglia Calabresi, che ha seguito tutte le udienze di questo interminabile procedimento, e che ha avutomolteplici occasioni e ampie ragioni per deplorare i toni e il modo con cui era stata condottala campagna di denuncia contro il commissario, non ha ritenuto, né allora né in seguito - quando era ormai emersa l'assoluta infondatezza di questa calunnia - di dissociarsi da modo in cui la difesa di parte civile ha condotto la criminalizzazione di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Dopo Lotta Continua è stata la volta di Saman. Il delitto, si è sostenuto, con inchieste giudiziarie, trasmissioni televisive in prima fascia, libri, false inchieste e corsivi di quotati columnist di tutte le parti, era maturato negli ambienti della comunità di cui Mauro era uno dei responsabili, per mettere a tacere traffici di droga che si svolgevano al suo interno. Altre persone incriminate - questa volta anche arrestate - e un'inchiesta finita in fumo per assoluta mancanza di indizi. Nel tritacarne di quella inchiesta è stata messa, con provvedimenti giudiziari e arresti corroborati da autorevoli avvocati e giornalisti, Chicca, la compagna di Mauro: con una pubblica esibizione di tutti i particolari, intimi quanto irrilevanti, della sua vita personale, elevandola per alcuni mesi al rango di «vedova nera», mandante o complice dell'assassinio del suo compagno. Una sorte che prima di allora era toccata solo, negli anni '50, alla vedova del commissario Tandoi, messa alla gogna per proteggere gli assassini mafiosi del marito. Le vicende delle indagini sull'assassinio di Rostagno sono uno spaccato del modo in cui l'informazione è stata governata e la mafia è stata coperta in questi ultimi vent'anni e, ovviamente, anche prima. Perché il delitto all'origine di tutte queste vicende, e per il quale sono stati puniti, è la partecipazione di Mauro Rostagno, come quella di Sofri, Bompressi e Pietrostefani al movimento del '68 e alle lotte sociali degli anni seguenti. Una tesi alla fine ammessa anche dal finto avvocato difensore di Leonardo Marino.
di Guido Viale
da Il Manifesto
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